Il decreto legislativo n. 145 del 30 maggio 2005, recepisce la direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro.
Si modificano, dunque, sia la legge n. 125/1991, sia la legge n. 903/1977, le cui disposizioni sono in parte confluite nel decreto legislativo n. 151/2001.
Con il recepimento della direttiva 2002/73 sopra citata la tutela si estende dal lavoro subordinato a quello autonomo. E’ pertanto vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra modalità, indipendentemente dalla tipologia di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.
Il citato decreto legislativo n. 145/2005 distingue fra discriminazione diretta e indiretta, precisando che:
– costituisce discriminazione diretta qualsiasi atto, patto o comportamento che produce un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque ponendo in essere un trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga;
– si ha, invece, discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali.
Secondo il decreto legislativo 145 quest’ultima tipologia non si verifica quando riguarda requisiti essenziali appunto allo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il conseguimento dello stesso siano appropriati e necessari.
La previsione di cui sopra appare più ampia rispetto a quella della direttiva recepita che invece limita la deroga a situazioni oggettivamente giustificate da una finalità legittima, sempre che i mezzi impiegati siano appropriati e necessari.
Sono considerate come discriminazioni fondate sul sesso, e quindi vietate, anche le molestie e le molestie sessuali.
Le prime si identificano in quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.
Quando il comportamento indesiderato assume connotazione sessuale si ha, appunto, la molestia sessuale che può manifestarsi in forma fisica, verbale o non verbale, ma ha lo scopo o raggiunge comunque l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore.
Sono, pertanto, nulli gli atti, i patti o i provvedimenti concernenti il rapporto di lavoro adottati in seguito al rifiuto di tali comportamenti da parte di una persona che ne sia stata vittima. Parimenti, sono altresì considerati discriminatori i comportamenti del datore di lavoro assunti a seguito di una azione volta a ottenere il rispetto del principio di parità.
Il giudice, che accerta l’azione discriminatoria denunciata, oltre a ordinare la rimozione delle cause discriminanti, provvede, in quanto richiesto, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, subito dal lavoratore o dalla lavoratrice.
Anche in caso di ricorso proposto dal consigliere di parità, presente a livello nazionale, regionale e provinciale in base a quanto disposto dal decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 196, il decreto motivato e immediatamente esecutivo può stabilire il risarcimento del danno, nei limiti della prova fornita.
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