Nella fattispecie in esame, un lavoratore svolgente mansioni di operaio aveva proposto ricorso alla Corte di Appello per ottenere il riconoscimento del lavoro straordinario prestato, oltre le otto ore giornaliere, e concernente il tempo impiegato quotidianamente per indossare sul luogo di lavoro il grembiule, le scarpe antinfortunistiche ed il copricapo, nonché il tempo necessario per togliersi tali indumenti a fine lavoro.
Il giudice di secondo grado, confermando la sentenza del Tribunale, aveva rigettato la domanda dell’operaio stesso, in base all’affermazione che dalle disposizioni contenute nella normativa nazionale e comunitaria, l’orario di lavoro inizia nel momento in cui il lavoratore comincia ad espletare l’attività richiesta, ivi compresi gli intervalli di tempo antecedenti o successivi, nei quali sia riscontrabile una situazione di cosiddetta eterodirezione rispetto al tempo e all’attività del prestatore di lavoro, che diventa oggetto di regolamentazione e controllo da parte del datore di lavoro.
La pretesa retributiva del lasso di tempo impiegato dal lavoratore per le necessarie operazioni di vestizione, potrebbe quindi essere fondata solo se in tale tempo si realizzasse un sostanziale assoggettamento del prestatore di lavoro al potere organizzativo e direttivo esercitato dal datore di lavoro stesso.
A parere della Corte, il potere del datore di lavoro di esigere l’adempimento di tali attività accessorie, non configurerebbe una ipotesi di assoggettamento al potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro, dal momento che il tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli indumenti di lavoro non richiede l’applicazione assidua e continuativa richiesta dal Rdl n. 692/23 per la configurazione del lavoro effettivo. In particolare, nel caso in esame, non era possibile rilevare alcun tipo di interferenza del datore di lavoro sull’attività preparatoria in quanto al lavoratore era consentita la scelta del momento nel quale indossare gli indumenti, essendo egli libero di recarsi in impresa direttamente con gli indumenti già indossati, oppure potendo recarvisi con l’anticipo necessario per indossarli in loco, prima dell’inizio del turno. Il giudice del secondo grado ha quindi concluso qualificando tale attività preparatoria come un dovere di diligenza che, facendo corpo con quello concernente l’obbligazione principale, doveva ritenersi già remunerato dalla retribuzione ordinaria, senza diritto a compensi aggiuntivi.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore, contestando violazione e falsa applicazione della normativa nazionale e comunitaria in materia di orario di lavoro, in particolare per avere erroneamente interpretato la disposizione del citato RDL n. 692, in tema di lavoro effettivo.
A parere della Suprema Corte, la sentenza impugnata si è attenuta al principio di diritto enunciato in un caso analogo dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 15734 del 21 ottobre 2003), la quale aveva affermato che il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, il cosiddetto “tempo tuta”, deve essere retribuito solo ove la relativa operazione venga diretta dal datore di lavoro, poiché solo in tal caso rientrerebbe nel lavoro effettivo che deve essere retribuito. La Cassazione ha respinto il ricorso sottolineando la ragionevolezza dei principi enunciati sul punto in sede di legittimità, in quanto il tempo impiegato per la vestizione è un obbligo preparatorio alla effettiva prestazione lavorativa da considerare come di natura puntuale, non trovando prescrizione quanto alla durata della stessa.
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