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Una sentenza del Consiglio di Stato fa il punto sul delicato tema degli affidamenti ”in house” da parte delle amministrazioni, alla luce delle novità introdotte in materia dalle nuova normativa UE su appalti e concessioni

Archivio, Opere pubbliche

Capitale privato all’interno delle società controllate: il parere del Consiglio di Stato

27 Luglio 2015
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In attesa del recepimento delle nuove direttive UE in materia di appalti e concessioni, la VI Sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 2660 del 26 maggio 2015, fa il punto in merito all’istituto dell’ “in house”.
 
Come noto, l’argomento degli affidamenti diretti a società controllate da parte della pubblica amministrazione (nelle sue varie articolazioni, centrali e locali) è di grande attualità, atteso, altresì, che le nuove norme europee ne contengono una precisa definizione normativa dell’istituto.
 
In particolare, l’art. 12 della direttiva 2014/24 UE sugli appalti pubblici esclude dal campo di applicazione della direttiva gli affidamenti di un’amministrazione aggiudicatrice affida verso altra persona giuridica, qualora siano soddisfatte talune condizioni, quali:
 
a)         la stazione appaltante eserciti sulla persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri uffici (ossia esercita un’influenza decisiva in materia di obiettivi strategici e decisioni rilevanti della persona giuridica controllata);
b)         almeno il 80% dell’attività della controllata siano svolte per la stazione appaltante e per altre persone giuridiche controllate dalla stazione appaltante stessa;
c)         nella persona giuridica controllata vi è assenza di capitali privati diretti, ad eccezione di forme minoritarie di partecipazione privata, prescritte dalle disposizioni legislative nazionali applicabili, inidonee ad esercitare un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.
 
Ed è proprio sull’essenza di tali requisiti che si è recentemente concentrato il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento.
 
In primo luogo, i giudici di Palazzo Spada intervengono per meglio definire il concetto di controllo analogo; in particolare, nella sentenza si precisa che, al fine di soddisfare tale requisito, è necessario che tra soggetto controllante e soggetto controllato vi sia un rapporto solo apparentemente intersoggettivo, ma, nella sostanza, equiparabile ad un rapporto inter organico.
 
Nei confronti del soggetto ”in house”, in altre parole, non deve potersi ravvisare alcuna “ fattispecie contrattuale”, dal momento che la definizione stessa di contratto implica il sussistere di almeno due parti contrattuali, ovvero l’esistenza di due soggetti distinti.
 
Tale chiarimento sembrerebbe mettere in luce le criticità connesse all’apertura verso la presenza di capitale privato all’interno della società “in house”.
 
Infatti, seppur minoritario, il capitale proveniente dai privati giova ad escludere il requisito del controllo analogo, perché segue fini disomogenei rispetto a quelli di pubblico interesse, escludendo pertanto quell’assimilazione sostanziale su cui si fonda l’istituto dell’ “in house”.
 
Il privato titolare di quei capitali, inoltre, grazie a questo affidamento beneficerebbe di un vantaggio competitivo ottenuto senza rispetto delle regole della concorrenza.
 
Secondo Palazzo Spada, quindi, la nozione di ente pubblico ai fini della verifica del requisito del controllo analogo deve essere intesa in maniera particolarmente rigorosa e restrittiva, dovendosi escludere la possibilità di equiparare ad esso qualsiasi soggetto che, a prescindere dai poteri e dai fini e dalla struttura organizzativa, operi grazie a capitali privati.
 
Inoltre, il Consiglio di Stato, riprendendo le conclusioni cui è giunta la Corte Costituzionale nella sentenza n. 325 del 2010, ha precisato che l’”in house” deve costituire un’eccezione rispetto alla regola della concorrenza.
 
Proprio in quanto istituto eccezionale, il legislatore può scegliere di ricorrervi senza che sussista un vero e proprio obbligo in tal senso, con la conseguente possibilità utilizzo in termini più restrittivi rispetto a quanto prescritto a livello comunitario.
 
L’Italia, quindi, in sede di recepimento, potrebbe legittimamente decidere di non avvalersi di tale principio, scegliendo di attuare un livello di tutela della concorrenza ancora più elevato rispetto a quanto prescritto a livello comunitario.
 
Infine, la sentenza offre un’interessante delucidazione  sulla rilevanza giuridica delle nuove norme, nelle more del recepimento.
 
Al riguardo, viene osservato che fino alla scadenza del termine previsto per il recepimento, è da escludersi la valenza “self executing” delle nuove regole sull’”in house”.
 
Di conseguenza, sussiste, in capo all’interprete giuridico, un mero obbligo di astensione da interpretazioni che si pongano in senso pregiudizievole rispetto al risultato che il legislatore comunitario ha inteso raggiungere.
 
Tale risultato non risulterebbe compromesso dall’applicazione delle regole sull”’in house” attualmente codificate nel nostro ordinamento, atteso, che si tratta di norme che recepiscono quanto stabilito dalle “storiche” sentenze della Corte di Giustizia in materia.

21491-SENTENZA 2660.pdfApri
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