Quale impresa non vorrebbe crescere in Italia? E’ questa la domanda alla quale bisogna rispondere per ben inquadrare il dibattito intorno alla natura del nostro mercato. In un editoriale pubblicato ieri su questo giornale, si attribuisce la contrarietà di tutto il sistema Ance alla costruzione di un monopolio, con il rischio di concentrare presso un unico soggetto imprenditoriale, partecipato da Cdp, la realizzazione di gran parte dei lavori pubblici, a una presunta “battaglia” tra grandi e piccoli. Come se ci fossero imprese che alla possibilità di crescere, assumere e strutturarsi dicessero “no grazie” solo per il gusto di rimanere piccoli e non per la reale e oggettiva impossibilità di ingrandirsi. Chiunque faccia impresa nel nostro settore sa benissimo che con la burocrazia, le regole e la situazione finanziaria attuali nessuno potrà ampliare la propria attività, anzi è già un miracolo e spesso un atto di vero eroismo continuare a svolgerla.
Non è dunque una battaglia dovuta alle diverse dimensioni imprenditoriali- in un sistema sano c’è lavoro per tutte le tipologie di impresa – ma alle regole del mercato, che devono essere uguali per tutti. Questa è la battaglia di Ance, non altre.
Le prime, tra l’altro, a essere danneggiate dalla concorrenza di chi gode del supporto dello Stato e di cospicui aiuti finanziari sono proprio le altre grandi imprese italiane- che Ance rappresenta- che con le sole proprie forze stanno ancora sul mercato. Oltre a tutte quelle che sono state lasciate negli anni al proprio destino, senza alcun intervento pubblico, perdendo migliaia di posti di lavoro.
La questione centrale, dunque, non è se sia meglio crescere o restare piccoli, visto che peraltro nel nostro come in tanti altri settori economici, tra cui l’editoria, tra i piccoli ci sono grandi eccellenze da tutelare, ma come far competere tutti ad armi pari.
Ci siamo chiesti perché nel resto d’Europa, a differenza dell’Italia, ci sono più gruppi imprenditoriali che, senza aiuti di Stato, riescono a competere nello stesso mercato? Forse perché in Italia gli investimenti non arrivano mai a diventare cantieri? O perché le norme cambiano in continuazione? Nel nostro Paese non esistono le condizioni per far crescere un’impresa. Non è un caso infatti che la redditività delle imprese italiane negli ultimi dieci anni è arrivata a zero.
Negli ultimi 15 anni, come denunciamo da tempo, gli investimenti in costruzioni in Italia sono calati del 60%. Non ci possiamo stupire, dunque, se nello stesso periodo decine di grandi, insieme a centinaia di medie e migliaia di piccole, hanno chiuso, senza che nessuno abbia mosso un dito. Di fronte a questa crisi di sistema in tutta Europa si è corso ai ripari con soluzioni strutturali in grado di mettere in sicurezza uno dei settori chiave dell’economia.
Perché in Italia non è stato fatto? Cosa aspettiamo a eliminare le leggi inique, la presunzione di colpevolezza, le procedure farraginose che bloccano tutto e il regime fiscale vessatorio che impediscono alle imprese di lavorare? Invece di chiederci se grande è meglio di piccolo cominciamo a creare le condizioni per sostenere e far crescere le migliaia eccellenze italiane del nostro settore che sono la struttura portante, a tutti i livelli e tutte le dimensioni, della nostra economia.
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