La fattispecie esaminata dalla sentenza in commento riguarda il distacco di una dipendente, con mansioni di caporeparto, dall’ipermercato di Terni all’ipermercato di Modena per svolgere uno stage conoscitivo per la formazione professionale della stessa con durata inizialmente predeterminata in tre mesi e mezzo e poi ridotta di circa due mesi nelle more delle trattative.
La dipendente si era però rifiutata di svolgere tale stage a Modena ed era quindi stata licenziata dall’impresa.
La Corte di Appello ha accolto l’impugnazione proposta dalla lavoratrice contro la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda, annullando il licenziamento intimato e condannando l’impresa alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno.
L’impresa proponeva ricorso in Cassazione, il quale trovava accoglimento con rinvio al giudice di appello.
La Corte, prima di entrare nel merito della vicenda, si è soffermata sulla giurisprudenza e sulla normativa sviluppatasi in materia, sottolineando tra l’altro come l’ultima disciplina contenuta nell’art. 30, D.lgs n. 276/03, ricalchi esattamente lo schema già definito dagli orientamenti giurisprudenziali prevalenti.
Infatti, ai fini della legittimità del distacco, il citato art. 30 richiede:
1) la sussistenza di un interesse proprio del datore di lavoro distaccante;
2) la temporaneità del distacco;
3) il consenso del lavoratore quando il distacco comporti un mutamento di mansioni;
4) la sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive, quando il distacco comporti il trasferimento ad una unità produttiva sita a più di 50 Km da quella in cui il lavoratore è adibito.
I sopra menzionati requisiti sono tuttavia desumibili, secondo la sentenza in commento, già dalle regole di cui all’art. 2103 c.c. e dal principio per cui non è consentito al datore di lavoro di assumere delle decisioni arbitrarie, non riconducibili ai poteri che gli sono conferiti dal contratto di lavoro e dall’inserimento del dipendente nell’organizzazione dell’impresa, e senza bilanciamento tra esigenze aziendali e interessi del lavoratore.
La Corte ha quindi concluso nel senso che il principale difetto logico – giuridico del ragionamento del giudice di appello atteneva alla valutazione dell’interesse del datore di lavoro a destinare il lavoratore presso l’unità produttiva di un’altra impresa, interesse che invece la Suprema Corte ha ritenuto sussistente.
Invece, per quel che riguarda gli altri elementi di legittimità del distacco sopra indicati, secondo la Corte, restava da indagare se il potere modificativo delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa fosse stato esercitato in modo arbitrario: per finalità non consentite; ovvero senza un adeguato bilanciamento tra esigenze della impresa ed interessi importanti della lavoratrice. Pertanto la Corte cassa con rinvio la decisione della Corte di Appello per un nuovo esame circa la fondatezza della impugnazione del licenziamento.
In particolare, il giudice del rinvio, sulla premessa che, nel caso di specie, è emerso esclusivamente l’interesse del datore di lavoro al distacco dovrà, sempre secondo l’interpretazione della Corte, accertare se il rifiuto opposto dalla lavoratrice di recarsi a Modena per il corso di formazione fosse giustificato dall’arbitrarietà dell’ordine, in relazione alle finalità perseguite in concreto, desumibili anche dalla inesistenza di reali esigenze di formazione; ovvero, se in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, le motivazioni del rifiuto fossero state adeguatamente valutate per compararle con quelle della impresa, secondo i principi di correttezza e buona fede, formulando infine il giudizio di proporzionalità tra l’inadempimento, eventualmente accertato come imputabile alla lavoratrice e valutato negli elementi oggettivi e soggettivi, e la sanzione applicata.
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