Con la sentenza in oggetto la Corte di Cassazione interviene ancora sul delicato problema dell’esercizio dello “jus variandi” da parte del datore di lavoro, evidenziando come tale diritto sia legittimamente esercitato allorquando il datore stesso, nell’assegnare mansioni diverse, tenga conto della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro.
Tale professionalità, essendo collegata alla realtà dell’impresa, va considerata in senso dinamico, tanto da essere intesa come patrimonio potenzialmente polivalente, capacità di far fruttare nel nuovo posto di lavoro l’esperienza e le cognizioni sino a quel momento acquisite da parte del lavoratore.
La predetta professionalità è quindi rispettata ogni qualvolta il mutamento di mansioni sia attuato con la conservazione dei tratti essenziali fra le competenze richieste al lavoratore prima, e quelle richieste dopo il mutamento di mansioni. Conseguentemente, come pure ha affermato la sentenza in esame: “ciò che importa, nel rispetto della tutela delineata dall’art. 2103 c.c., è che, attraverso l’affidamento di nuovi compiti, del tutto estranei rispetto all’attività precedentemente svolta e alle cognizioni tecniche già acquisite, non venga del tutto disperso il patrimonio professionale e di esperienza già maturato dal dipendente, compromettendo altresì irrimediabilmente le sue prospettive di carriera all’interno della impresa cui appartiene”.
La Corte poi, seppure solo incidentalmente, affronta l’aspetto retributivo connesso al problema dell’inquadramento del dipendente, richiamando la giurisprudenza dominante sul punto secondo la quale: “il divieto di diminuzione della retribuzione non è assoluto, ma collegato al divieto di dequalificazione. Sicchè, a fronte di mansioni equivalenti dal lato professionale, le indennità remunerative di una particolare modalità delle prestazioni di lavoro ben possono venir meno con il cessare di tale modalità.”
Nel caso di specie, un dipendente di un istituto bancario adiva il Giudice del lavoro per sentirsi riconoscere l’inquadramento come funzionario di I livello, o in subordine, di III livello, e la condanna dell’istituto stesso ad assegnarlo a mansioni corrispondenti a tale qualifica.
I Giudici di merito e, cioè, il Tribunale, prima, e la Corte d’Appello, poi, respingevano il ricorso, dichiarando infondata la questione inerente alla lamentata dequalificazione, con conseguente legittimo esercizio dello “jus variandi” da parte del datore di lavoro e la non fondatezza della richiesta di risarcimento del danno.
In particolare, la Corte d’Appello aveva accertato che dagli elementi probatori prodotti dalle parti risultava l’equivalenza delle mansioni assegnate al ricorrente, e in particolare, gli incarichi quale titolare di filiale di banca prima e, quale direttore di banca, poi. Ricorreva in Cassazione il dipendente, tra l’altro, per violazione di legge e, in particolare, per violazione dell’ art. 2103 c.c.
La Cassazione, nella sentenza in esame, esaminando la questione precisa che, seppure da un punto di vista formalistico dell’inquadramento contrattuale le diverse mansioni assegnate possono risultare diverse, occorre comunque avere riguardo alla qualità di quelle di destinazione ed il loro grado di compatibilità con le mansioni svolte precedentemente, con la conseguenza che, ove tale valutazione permette di giungere ad un giudizio di equivalenza professionale, come precisato poco sopra, l’esercizio dello “jus variandi” da parte del datore di lavoro è del tutto legittimo.
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