Nella sentenza che si annota la Suprema Corte si occupa di una fattispecie di licenziamento intimato nell’ambito predetto di un trasferimento di impresa. In questa ipotesi, il lavoratore ha impugnato il licenziamento intimatogli dal cedente, comunicando la propria volontà di impugnare tale recesso nei confronti dello stesso, anziché del cessionario, che nel frattempo era diventato titolare del rapporto di lavoro in questione.
Nel ricorso del lavoratore per violazione e falsa applicazione dell’art. 1334 c.c., il medesimo sostiene che il licenziamento in parola, quale atto unilaterale recettizio, deciso dal cedente e pervenuto a conoscenza del dipendente stesso quando ormai il rapporto in questione è transitato nel patrimonio del cessionario, è da considerarsi inefficace e non può produrre quindi alcun effetto, in quanto al momento della perfezione di tale atto, cioè della ricezione da parte del lavoratore in parola, il datore di lavoro non è più titolare del rapporto di lavoro. Si tratta della medesima tesi sostenuta dalla Corte di Appello di Torino che, però, per mancanza di una specifica domanda in ordine alla declaratoria di nullità o illegittimità del licenziamento, è stata obbligata a dichiarare la risoluzione del rapporto di che trattasi. La Corte di Cassazione rigetta, nella sentenza in esame, tale argomentazione e pertanto anche il motivo di ricorso cui essa si fonda, in quanto al momento dell’emissione della comunicazione del recesso il cedente è capace di esprimere la propria volontà in modo perfetto.
Successivamente – osserva la Corte – il cessionario dell’impresa subentra nei rapporti di cui questa è composta nello stato in cui si trovavano al momento della predetta cessione e, quindi, anche del licenziamento intimato, sebbene non ancora giunto a conoscenza del destinatario. L’atto di licenziamento è quindi produttivo degli effetti che gli sono tipici, tra i quali il sorgere dell’onere di impugnazione entro 60 giorni in capo al lavoratore.
La Cassazione accoglie invece il ricorso incidentale, con il quale si sostiene che il licenziamento non è stato validamente impugnato nei suddetti 60 giorni stabiliti dall’art. 6 della legge n. 604/66. In questo caso, sarà valido il ragionamento seguito per motivare il rigetto del ricorso principale: se, in caso di cessione di impresa, a norma dell’art. 2112 c.c., il rapporto di lavoro transita al cessionario nella medesima situazione in cui si trova prima della cessione stessa, allora anche il licenziamento in itinere subirà questa sorte e l’impugnazione del medesimo dovrà pervenire al datore di lavoro sempre entro i citati 60 giorni. Con la differenza che il datore di lavoro, destinatario dell’atto unilaterale recettizio, è nel frattempo divenuto un altro soggetto, e quindi per l’efficacia dell’impugnazione, questa dovrà essere portata a conoscenza del nuovo titolare del rapporto di lavoro.
Come affermato nella sentenza di che trattasi, l’accoglimento di questo modello argomentativo comporta un dovere di informazione a carico del lavoratore il cui rapporto di lavoro sia ricompreso tra quelli facenti parte dell’impresa ceduta, in modo da proporre una tempestiva impugnazione nei confronti dell’attuale datore di lavoro.
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