A seguito della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 6572/06, la giurisprudenza di legittimità sempre avere definitivamente adottato una interpretazione rigida in tema di risarcimento dei danni da demansionamento.
Nel caso concreto, sia in primo che in secondo grado, viene respinta la domanda proposta dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro, diretta ad ottenere la condanna del datore stesso al risarcimento dei danni, materiale e biologico, subiti a causa di un presunto demansionamento professionale.
Il giudice di secondo grado, nel respingere la domanda del lavoratore, aveva ritenuto, in particolare, infondata la censura relativa al suddetto demansionamento, non avendo lo stesso allegato alcuna specifica circostanza atta ad evidenziare tale evento.
Il lavoratore non ha provato né gli illeciti contrattuali ascritti alla controparte, ritenuti causa degli asseriti danni alla professionalità ed alla salute lamentati; né la sussistenza del danno ed il rapporto di causalità con i pretesi illeciti, non avendo prodotto alcuna documentazione medica.
Veniva poi confermato il rifiuto da parte del Pretore di dare ingresso alla prova testimoniale, come richiesto dal lavoratore, in quanto irrilevante.
Contro tale sentenza il lavoratore ricorre per Cassazione, contestando – in particolare – con il primo motivo la violazione degli artt. 2103 e 2043 c.c. e 115 c.p.c., sostenendo che la prova del demansionamento fosse deducibile dalla assegnazione del lavoratore a succursali sempre meno importanti ed osservando che la dimostrazione delle patologie di cui sosteneva essere affetto e della loro derivazione causale dal rapporto di lavoro fossero ricavabili da una consulenza tecnica di ufficio, richiesta in entrambi i giudizi di merito e non autorizzata dal giudice.
Nella sentenza in esame, la Corte dichiara l’infondatezza di tale motivo di ricorso, dal momento che – come chiarito dalle citate Sezioni Unite nel 2006 – il lavoratore deve non soltanto provare l’inadempimento contrattuale del datore di lavoro, per il divieto di dequalificazione ex art. 2103 c.c. e per violazione dell’obbligo di tutela della integrità fisica dello stesso dipendente ex art. 2087 c.c.; ma deve anche allegare e provare il danno professionale, di contenuto patrimoniale, che ritiene di avere subito, il danno biologico, consistente nella lesione della integrità psico-fisica medicalmente accertabile, nonché il nesso causale dei predetti danni con la condotta illecita del datore di lavoro.
Ma, nel caso di specie, il lavoratore non aveva assolto a detto onere probatorio, non avendo nemmeno dedotto che le mansioni in seguito assegnatigli risultassero estranee al proprio inquadramento.
Sotto tale aspetto, osserva la Corte, la mera allegazione – da parte del lavoratore – di essere stato trasferito ad una sede di lavoro minore non valeva a dimostrare un demansionamento, rispetto al quale la diversa consistenza delle sedi lavorative è un elemento, di per sé, non rilevante.
La mancata dimostrazione – da parte del lavoratore – sia di avere subito un pregiudizio economico dovuto a un danno professionale, che una lesione fisico-psichica legata eziologicamente alle presunte condotte illecite datoriali – chiarisce altresì la sentenza in commento – non potevano essere supportate da una richiesta di consulenza tecnica di ufficio, la quale, per consolidata giurisprudenza, non consente di esonerare la parte processuale dall’onere della prova o a supplire a tali mancate allegazioni.
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