Con l’allegata sentenza, la Corte di Cassazione affronta il tema della retribuzione ai fini contributivi.
Nel cassare l’impugnata pronuncia di secondo grado – favorevole all’Inps – la Corte ribadisce, richiamandosi alla più autorevole giurisprudenza di legittimità (c.f.r. Cass. Sez. Un. n. 11199/02), che l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo ai fini previdenziali non può essere inferiore a quella che sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi, senza limitazioni derivanti dalla applicazione dei criteri di cui all’art. 36 Cost., i quali sono rilevanti solamente quando ai predetti contratti si ricorre ai fini della determinazione della giusta retribuzione.
Come per la retribuzione a fini contributivi e del minimale contributivo, la previsione di un minimale contributivo per il settore dell’edilizia non costituisce fonte di obbligazione retributiva autonoma, sia pure ai soli fini previdenziali, ma incide esclusivamente sulla misura della retribuzione per verificarne il rispetto del minimale di retribuzione imponibile e, quindi, di contribuzione.
In altre parole, la retribuzione predetta è presupposto indefettibile non solo ai fini della qualificazione giuridica della stessa, ma anche al fine di conformarne, qualora necessario, la misura dei minimali di cui all’art. 29, comma 1, legge n. 341/95.
La nozione di retribuzione imponibile ai fini contributivi è infatti più ampia della nozione civilistica – di cui all’art. 2099 e seguenti c.c. –, in quanto comprende tutto ciò che il lavoratore riceve o ha diritto di ricevere in dipendenza del rapporto di lavoro.
Coerente alla disposizione costituzionale, inoltre, risulta l’imposizione del minimale contributivo in quanto l’assenza dello stesso, renderebbe impossibile la realizzazione dei fini assicurativi e previdenziali perseguiti (in tal senso si è pronunciata la Corte Costituzionale con la sentenza n. 342 del 20 luglio 1992).
Nell’esaminare il caso di specie, la Corte ribadisce come la cosiddetta “retribuzione-parametro” per il calcolo del minimale contributivo presupponga l’altrettanto cosiddetta “retribuzione-corrispettivo” – dovuta in dipendenza del rapporto di lavoro – e si limita ad elevarla, se inferiore, fino al raggiungimento del detto minimale, commisurata al numero di ore settimanale minimo previsto dai c.c.n.l. nazionali, restando tuttavia escluse le assenze dal lavoro previste ex lege n. 341/95 oppure, su delega della stessa legge, da un decreto ministeriale.
Le richiamate ipotesi di esclusione dal minimale, incidono quindi soltanto sull’importo del minimale stesso, risultando pertanto una “retribuzione-parametro” – quale base di calcolo della obbligazione contributiva – che può in teoria essere superiore rispetto alla “retribuzione-corrispettivo” dovuta.
Ne deriva, afferma la Corte, che lo stesso minimale non trova applicazione nelle ipotesi in cui non sia dovuta – in dipendenza del rapporto di lavoro – alcuna prestazione lavorativa né alcuna “retribuzione-corrispettivo”.
Pur essendo al di fuori delle sopra richiamate ipotesi di esclusione, si è comunque di fronte ad ipotesi diverse nelle quali, anche se in via temporanea, non sorge in dipendenza del rapporto di lavoro né l’obbligo di prestare attività lavorativa, né quello di corrispondere la retribuzione.
In conclusione, la Corte afferma che non può pertanto sorgere alcun problema circa la qualificazione giuridica della non esistente “retribuzione-corrispettivo” in tali ipotesi, né in merito alla conformazione, che ne deriva, della medesima retribuzione al minimale.
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