Il cosiddetto dare in “outsourcing” alcuni segmenti nella gestione dell’attività produttiva non significa necessariamente cedere un ramo di impresa.
Spetta esclusivamente all’imprenditore la scelta in tale ipotesi tra l’appalto e la cessione di impresa.
Ne deriva che, nel primo caso, i lavoratori della impresa appaltatrice restano in forza alla stessa non potendo i medesimi pretendere di essere considerati quali dipendenti della committente.
Quanto sopra è stato affermato dalla Corte di Cassazione che, con la allegata sentenza n. 21287 del 2 ottobre 2006, ha fornito una definizione dell’ “outsourcing”, operando a tal fine una netta distinzione fra appalto e cessione di impresa.
Lo spartiacque tra le due fattispecie, secondo la Corte, è fornito dalla opzione dell’imprenditore fra l’uno e l’altro criterio di gestione della politica aziendale.
Per la Cassazione, la cessione di ramo di impresa, agli effetti dell’art. 2112 c.c., deve essere intesa come il trasferimento di un insieme di elementi produttivi, personali e materiali, organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’attività, che si presentino prima del trasferimento come una entità dotata di autonomia ed unitaria organizzazione, idonea al perseguimento dei fini dell’impresa stessa e che conserva nel trasferimento la propria identità. Al contrario, l’appalto di opere e servizi o di manutenzione degli impianti all’interno dello stabilimento è un contratto diverso: in tal caso, infatti una parte assume, con proprio personale e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro.
In altre parole, se si cede il ramo di impresa viene, di fatto, trasferito un intero segmento dell’organizzazione produttiva, dotato, fra l’altro di autonoma e persistente funzionalità.
Invece, nel caso di appalto di servizi, il committente non dismette un segmento produttivo ma si avvale semplicemente dei prodotti e dei servizi fornitigli da altra impresa. Quindi, tutti i servizi e i prodotti utilizzati sono fondamentalmente prodotti dell’appaltatrice ed è la volontà imprenditoriale a fare la differenza tra le descritte ipotesi.
Qualora si sia inteso stipulare in appalto di servizi, a meno che non venga provato un intento elusivo, la sentenza in parola precisa che non si vede come tale contratto possa trasformarsi in un contratto di cessione di ramo di impresa, fattispecie del tutto diversa.
Ciò è quanto avvenuto ad alcuni lavoratori di una impresa appaltatrice di lavori edili all’interno di uno stabilimento petrolchimico di Gela che, dopo essere stati licenziati in seguito alla cessazione dell’appalto, chiedevano venisse dichiarato un unico rapporto di lavoro con le società committenti. Per tali lavoratori, infatti, si era in presenza di una vera e propria cessione del ramo di impresa.
Ciò in quanto fra i loro compiti rientrava, oltre alla manutenzione ordinaria delle opere edili all’interno dello stabilimento, anche la posa in opera di ponteggi e la costruzione di impianti.
In buona sostanza, secondo i suddetti lavoratori, parte del ciclo produttivo, inizialmente direttamente gestito dall’impresa che li aveva assunti, era in seguito stato dato all’aggiudicataria dell’appalto. Dunque, si palesava una vera e propria cessione di ramo di impresa.
Sia in primo, sia in secondo grado, la domanda degli operai è stata respinta in quanto, secondo i giudici di merito, non si era verificata una esternalizzazione dei servizi.
La Cassazione, con la sentenza in commento, nel confermare la motivazione dei giudici di merito ne ha corretto l’impostazione, nel senso che in effetti si era verificata una esternalizzazione ma attraverso un appalto vero e proprio e non mediante una cessione di impresa.
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